In occasione della messa in scena di Dio Ride. Nish Koshe, Moni Ovadia incontra il pubblico per approfondire i temi dello spettacolo che, venticinque anni dopo Oylem Goylem, ritrova il vecchio ebreo errante con nuove storie, umorismo e riflessione drammatica, racconto e canzoni, musica e barzellette.
Coordina l'incontro Anna Piletti.
Chiostro Nina Vinchi
Nel 1993 con Oylem Goylem, una creazione di teatro musicale in forma di cabaret, Moni Ovadia si impone all'attenzione del grande pubblico.
Venticinque anni dopo, su quel modello ma con nuove storie, canzoni, musiche, racconti e riflessioni Ovadia mette in scena Dio Ride. Nish Koshe (al Teatro Grassi dal 2 al 14 ottobre 2018) rivestendo i panni di Simkha Rabinovich, il vecchio ebreo errante, cantore delle storie di un «popolo sospeso tra terra e cielo»
L'incontro con il pubblico sarà l'occasione per approfondire i temi dello spettacolo «Una zattera in forma di piccola scena approdava in teatro venticinque anni fa – dice Moni Ovadia –. Trasportava cinque musicanti e un narratore di nome Simkha Rabinovich, che raccontava storie di gente esiliata e ne cantava le canzoni. Dopo un quarto di secolo, Simkha e i suoi compagni tornano per continuare la narrazione di quel popolo in permanente attesa, per indagarne la vertiginosa spiritualità con lo stile che ha permesso loro di farsi tramite di un racconto impossibile eppure necessario, rapsodico e trasfigurato, fatto di storie e canti, di storielle e musiche, di piccole letture e riflessioni alla ricerca di un divino presente e assente, redentore che chiede di essere redento nel cammino di donne, uomini e creature viventi verso un mondo di giustizia e di pace».
Nel 1993 con Oylem Goylem, una creazione di teatro musicale in forma di cabaret, Moni Ovadia si impone all'attenzione del grande pubblico.
Venticinque anni dopo, su quel modello ma con nuove storie, canzoni, musiche, racconti e riflessioni Ovadia mette in scena Dio Ride. Nish Koshe (al Teatro Grassi dal 2 al 14 ottobre 2018) rivestendo i panni di Simkha Rabinovich, il vecchio ebreo errante, cantore delle storie di un «popolo sospeso tra terra e cielo»
L'incontro con il pubblico sarà l'occasione per approfondire i temi dello spettacolo «Una zattera in forma di piccola scena approdava in teatro venticinque anni fa – dice Moni Ovadia –. Trasportava cinque musicanti e un narratore di nome Simkha Rabinovich, che raccontava storie di gente esiliata e ne cantava le canzoni. Dopo un quarto di secolo, Simkha e i suoi compagni tornano per continuare la narrazione di quel popolo in permanente attesa, per indagarne la vertiginosa spiritualità con lo stile che ha permesso loro di farsi tramite di un racconto impossibile eppure necessario, rapsodico e trasfigurato, fatto di storie e canti, di storielle e musiche, di piccole letture e riflessioni alla ricerca di un divino presente e assente, redentore che chiede di essere redento nel cammino di donne, uomini e creature viventi verso un mondo di giustizia e di pace».