Salta al contenuto principale

I fili dell’orizzonte | Stagione 2024/25

 

Solo Dio conosce tutte le combinazioni dell’esistenza, ma solo a noi spetta di scegliere la nostra combinazione fra tutte quelle possibili. 
Antonio Tabucchi, Il filo dell’orizzonte 

Il mio unico pensiero è una complicata semplicità [...] una cosa semplice deve esser semplice attraverso la complicazione. 
Gertrude Stein, Un’intervista transatlantica 

«Ogni verità è semplice» – Non è questa una doppia menzogna? 
Friedrich Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli 

Rimandando al Calvino delle Lezioni americane e “travestendo” le sue profezie sulle sorti dell’esperienza letteraria in un vaticinio sui destini dell’arte scenica, ritengo per esempio che un’ipotesi […] di rinnovamento del linguaggio teatrale […] sia quella di raccogliere finalmente anche sulla scena la sfida che le scienze contemporanee con i loro prodigiosi sviluppi hanno lanciato alle arti del nostro secolo […] in relazione alle strategie da mettere in atto per arrivare alla […] rappresentazione della complessità del reale. 
Luca Ronconi, Il mio teatro
 

SFOGLIA LA RIVISTA

SCOPRI GLI SPETTACOLI

SCARICA LA CARTELLA STAMPA


Genova, anni Ottanta, estate di San Martino. 
In una città stanca, pigramente affacciata sul mare e rosa da una lebbra lenta che ha invaso muri e case, in margine a un efferato fatto di sangue consumatosi in un vecchio stabile di via Casedipinte – doppio omicidio a colpi di pistola – si dipana (e si annoda) l’inchiesta di Spino, medico legale dell’Ospedale Vecchio. Scandita implacabilmente dai rintocchi del campanile di San Donato, in un vortice di concause che allarga il fuoco della ricerca dal dominio della cronaca nera a quello dell’interrogazione ontologica, l’odissea di Spino per caruggi e terrazze, pievi e botteghe, dal molo vecchio a Staglieno, in cerca della fantomatica identità di Carlo/Carlito Noboldi-Nobodi-Nessuno, si sfarina in un pulviscolo di incontri, in una nebbia di piccole scoperte che, mano a mano, sciolgono il punto di approdo della verità in una teoria di punti, sempre più remoti sempre più sfuggenti, una linea segreta che s’incurva e che ci abbraccia lontana, laggiù, oltre il mare buio della notte: il filo dell’orizzonte. 
 

Sulla scorta di modelli celeberrimi, dal Pasticciaccio al Nome della rosa, con la folgorante parabola del suo Filo dell’orizzonte, Tabucchi, ribaltando il racconto poliziesco in tractatus scientifico-filosofico-teologico, ci consegna, in vertiginosa miniatura, un manifesto raffinato del compito dell’artista: per dirla con Calvino, «da quando la scienza diffida delle spiegazioni generali e delle soluzioni che non siano settoriali e specialistiche», quello di «saper tessere insieme i diversi saperi e i diversi codici in una visione plurima, sfaccettata del mondo».


Poco più di quarant’anni ci separano dalle pagine di Tabucchi e a fronte del continuo e vertiginoso dilatarsi dello spazio e del tempo che abitiamo, del proliferare delle possibilità che si squadernano ai nostri occhi, dell’imbrogliarsi di ragioni e sragioni che governano le nostre azioni, forse la stessa metafora del filo dell’orizzonte non è più sufficiente a raccontare la complessità del nostro presente, forse è necessario moltiplicarla e intrecciarla in una trama di fili, in uno gnommero di orizzonti. 
 

I fili dell’orizzonte, dunque. Questa, evidentemente, la nuova frontiera – meglio: una delle nuove possibili frontiere delle arti contemporanee – e segnatamente del teatro.


A ben vedere, da secoli la scena si interroga sui modi e sulle forme attraverso cui intercettare e restituire in teatro la molteplicità camaleontica e proteiforme del reale. Sulle strategie da mettere in campo per aprire l’angusto spazio scenico e per dilatare il concentrato tempo della rappresentazione fino a “capire” etimologicamente il tumultuoso debordare della modernità (e dei suoi tanti dopo). 

Dal sistema delle trame multiple di Shakespeare teso a scassinare l’asfittica “prigione” delle unità pseudo-aristoteliche, giù giù fino alle ricerche epico-scientifiche di Brecht, di chiara ascendenza illuminista, senza però disdegnare le eccentriche rotte di Brook, con la sua “magica” capacità di sintesi suprema, aliena da ogni semplificazione. Ma oggi – in un mondo che, scavallato il crinale del reale, ha ormai definitivamente invaso il virtuale, che ha fatto del villaggio globale non più un’arguta metafora epistemica, ma una concreta e spaesante esperienza quotidiana, in cui l’“altrove” e l’“allora” o il “poi” s’intrecciano indissolubilmente al “qui” ed “ora”, in cui il fake sembra essere diventata l’altra faccia della verità e il reale è impastato di racconti, al punto che lo specchio del teatro rischia di spezzarsi nell’urto con la complessità del presente – la necessità di affrontare la molteplicità, se non esaurendola, quanto meno catalogandola, progettandola, sondandola, si è fatta vieppiù urgente. 
 

E così, continuando l’indagine del Piccolo Teatro intorno alle nuove possibilità del linguaggio scenico in dialogo con gli interessi del pubblico e le esigenze degli artisti, la stagione 2024/25 del Teatro d’Europa tenta di fornire una labirintica galleria dei multiformi orizzonti del nostro tempo, colti da diverse prospettive.


La proiezione del privato nel campo lungo della storia o l’apertura dell’autobiografia e del “ritratto di famiglia in un interno” a rispecchiare il mondo. L’adozione della città a palcoscenico del teatro o il ribaltamento dell’Antropocene in un’esplorazione della natura anche oltre l’umano. Il ritorno al classico, alla fiaba, al mito e ai grandi poemi dell’infanzia del mondo come maschere della contemporaneità e delle sue mille contraddizioni. La ricapitolazione della memoria e dei suoi molti anfratti come prontuario per la costruzione di scorci arditi sul futuro o il ricorso alla tassonomia “in quadriglia” per riferire delle spietate strategie di cancellazione degli ultimi. 

E ancora: la rifrazione dell’oggidì nella babele dei linguaggi o nella gran fabbrica della retorica, con la sua forza di persuasione; il certosino ricamo delle mappe romanzesche del presente; la divertita reinvenzione della teoria delle catastrofi in bilico tra antropologia e fantascienza fino all’inventario didattico dei diversi modi della violenza al solo fine di bandirla, un giorno, dal mondo. Fondamentali, nell’attraversare la ricca messe di proposte affidata alla plancia/cartellone, le regole di ingaggio per gli spettatori. Giocare allegramente con i dadi, senza tema di smarrire la rotta (chi arriva al 62, o vuoi al 65, prosegue al 73; e chi arriva al 24 tira i dadi un’altra volta; ma chi arriva al 44, se è accorto, si ferma per due giri: perché la sosta è importante). 
 

Non limitarsi a un approccio o a una visione, ma inseguire quante fiate correndo come matti la ragnatela dei nessi, il contrappunto delle voci, la geometria delle corrispondenze. Trascorrere liberamente di spettacolo in spettacolo, senza rinchiudersi in uno steccato, per decifrare relazioni, per scoprire costellazioni, per interrogare i rebus – insomma: per escogitare immagini e chimere unendo i punti alla maniera dei bambini…

Claudio Longhi

 

P.S.
[…] Spino è un nome di mia invenzione, ed è un nome a cui sono affezionato. Qualcuno potrà osservare che è abbreviazione di Spinoza, filosofo che non nego di amare; ma certo significa anche altre cose. Spinoza, sia detto per inciso, era sefardita, e come molti della sua gente il filo dell’orizzonte se lo portava dentro gli occhi. Il filo dell’orizzonte, di fatto, è un luogo geometrico, perché si sposta mentre noi ci spostiamo. Vorrei molto che per sortilegio il mio personaggio lo avesse raggiunto, perché anche lui lo aveva negli occhi. (A.T.)